Le conseguenze del "ghosting" alle notizie
Per contrastare la "news avoidance" bisogna iniziare a pensare alle conseguenze e all'impatto che le notizie hanno sulle persone, rompendo il tabù della pubblicazione a tutti i costi
Hola,
Sono Barbara D’Amico, giornalista, Head of Project Management Team per un’azienda italiana della comunicazione e fu Google News Lab Teaching Fellow. Questa è la mia newsletter sul digital journalism, un modo per restare in contatto con me, sapere cosa combino e ricevere news su corsi, eventi e punti di vista fondamentalissimi su quanto accade nell'infosfera online.
(Immagine generata con AI di CANVA)
Se avete seguito il Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia, spero abbiate potuto partecipare al panel Avoiding the News. Io purtroppo a Perugia non sono riuscita a passare nemmeno quest’anno, ma avevo avuto la fortuna di ascoltare l’intervento di una delle speaker, Ruth Palmer, a Torino un mese prima (il 19 marzo per l’inaugurazione della nuova sede del Master in Giornalismo Giorgio Bocca).
Palmer, Professoressa Associata in Communication and Digital Media alla IE University di Madrid e Segovia, è autrice dell’omonimo saggio scritto con Rasmus Nielsen, Direttore del Reuters Institute for the Study of Journalism, e Benjamin Toff, Ricercatore alla Hubbard School of Journalism & Mass Communication (University of Minnesota), su un fenomeno sempre più diffuso: i lettori che evitano le notizie, per varie ragioni ma soprattutto perché - dicono i dati della ricerca - le notizie creano ansia e stress ulteriori rispetto a quelle già presenti nella vita personale.
Perché questo saggio merita attenzione? Il fenomeno della “news avoidance” infatti è oggetto di studi e attenzione già da diversi anni. Palmer&Co però non si sono limitati a somministrare sondaggi anonimi, ma hanno condotto anche interviste qualitative su campioni di lettori di diversa estrazione sociale, età ecc… E il quadro che viene restituito è utile per capire cosa possiamo fare noi dentro e fuori le redazioni per provare a invertire la tendenza.
Utile da sapere: il campione di ricerca è stato individuato tra Spagna, Regno Unito e Stati Uniti.
Se ci pensate, il fenomeno è anche figlio del nostro tempo: è come se le redazioni, non solo le notizie, subissero un vero e proprio ghosting da parte dei lettori.
Eppure, al di là di tutti gli errori che la mia categoria continua a commettere, l’informazione dovrebbe essere riscoperta nella sua essenza più pura: quella di strumento di formazione democratica, “tool” che ogni cittadino dovrebbe usare per migliorare le proprie scelte (non solo politiche).
Chi sono gli “avoidants”
Come spiega Palmer nel video che ho catturato, male, e pubblicato qui sotto, gli “evitanti” possono essere suddivisi in due grandi categorie, ovvero coloro che già leggono/si informano normalmente ma scelgono ogni tanto o spesso di evitare specifiche tipologie di notizie o fonti di notizie (i cosiddetti “selective news avoidance”) - e che sono circa il 36% dei lettori/utenti di news nel mondo (secondo le stime della ricerca) - e quelli che invece sistematicamente evitano le news (sono un po’ meno, circa il 3% ma vedremo tra poco che i due dati non indicano quello che state pensando).
Partiamo dai primi. Chi evita ogni tanto o spesso le notizie lo fa per ragioni di information overload, cioè il sovraccarico di notifiche e contenuti disponibili online e in tv.
E’ un fenomeno peggiorato durante il Covid. Eppure, spiega Palmer, nonostante la selettività, questa tipologia di avoidants non si traduce in lettori che consumano meno notizie nel corso del tempo. Detto altrimenti: il fatto di rinunciare a leggere/ascoltare le notizie, non allontana questi utenti dal giornalismo e dalle notizie sul lungo periodo, perché la quantità totale di informazione che consumano alla fine dell’anno resta la stessa.
“People who say they sometimes or often avoid news are still consuming the same amount of news overall” (Ruth Palmer)
Palmer parla di “healthy news consumption behavior” quindi ci riporta un quadro in cui i lettori/utenti trattano o percepiscono le notizie come se fossero medicine da prendere in dosi controllate.
Credo rispecchi perfettamente quello che molte e molti di noi provano davanti alle notizie (e mi ci metto anche io che sono del mestiere). Una selezione, una riduzione delle fonti - specie quando i giornali ossessivamente coprono o si concentrano su filoni di news - non intacca la mia capacità di restare informata, anzi mi protegge da effetti negativi sul mio sistema nervoso e sulla mia salute mentale ed emotiva.
Gli evitatori di notizie di cui invece dobbiamo preoccuparci, sono i cosiddetti “consistent news avoidants”, cioè quel 3% di persone che sistematicamente non legge e non si informa attraverso i canali giornalistici.
E’ un numero che sta crescendo. Qui la parte della ricerca di Palmer e colleghi si fa davvero interessante. Una volta individuati i lettori che avevano dichiarato di leggere/informarsi meno di 1 volta al mese o mai, il team di ricerca ha selezionato alcuni di loro a campione ed è andato a intervistarli nelle proprie case.
“The main source of data here is qualitative, okay. These are in-depth in-home interviews with people who say that they consume news less than once a month or never, okay, so we went into people's homes and we asked them to talk about their lives and how they think about news and we did this in the United Kingdom in Spain and where I live in the United States” (Ruth Palmer)
Quando è stato chiesto loro di parlare di come si sentono rispetto alle notizie, hanno risposto nella maggior parte dei casi che:
le notizie sono tutte false, non affidabili, perché la stessa notizia ha titoli diversi su diverse testate o, a seconda dell’orientamento del giornale, uno stesso fatto viene presentato in modi completamente diversi e questo crea confusione perché non si capisce più quali siano i fatti realmente accaduti;
sentono che le notizie sono spesso manipolate da interessi politici e che non c’è differenza tra giornalisti e politici.
Uno degli elementi narrativi ricorrenti nelle spiegazioni di questi non-consumatori di notizie riguarda anche il proprio contesto sociale o familiare. Chi non legge/ascolta o si informa poco in generale, dice che lo fa perché a casa non c’erano giornali, non c’era nessuno che leggeva le notizie o guardava il telegiornale o sentiva le notizie alla radio.
Ma non è solo l’abitudine a creare disaffezione all’informazione. Una donna intervistata ha dichiarato di non leggere le notizie perché a casa sua il telegiornale e le news erano “una cosa da uomini”.
Il che lascia intendere - qui la considerazione è mia, non di Palmer - che in un contesto simile le donne non possano nemmeno permettersi di partecipare con una propria opinione a un dibattito innescato da una notizia.
Non si tratta di esternazioni una tantum, ha spiegato poi Palmer, ma di filoni narrativi che il suo team di ricerca ha isolato fino a individuare dei pattern di comportamento applicabili in varie parti del mondo.
In ultima analisi, l’allontanamento dalle notizie parte dal logoramento del rapporto di fiducia tra lettori e redazioni, tradito - secondo gli utenti oggetto della ricerca - dalla mancanza di difesa degli interessi del pubblico a scapito di quelli del mercato e della politica.
Il fatto che le giornaliste e i giornalisti siano confusi con i politici la dice lunga. Ma ci sono anche i fattori sociali: contesti più poveri, in cui scarseggiano educazione e formazione, sono quelli in cui è più difficile poi ricostruire questo rapporto di fiducia.
Cosa possono fare le redazioni
Finito l’intervento, c’è stato il momento delle domande dal pubblico. Io ne ho approfittato e ho chiesto a Palmer se secondo lei c’è qualcosa, a livello metodologico e organizzativo, che le redazioni possono fare per ridurre il fenomeno.
Più o meno la domanda era questa:
Cosa possono fare le redazioni e i giornalisti per ridurre il fenomeno della news avoidance da parte dei lettori, aumentando quindi il livello di fiducia nel giornalismo stesso? All'estero ad esempio, esistono sistemi di fact-checking strutturati che permettono una maggiore verifica su ciò che viene pubblicato in modo da garantire la qualità e quindi evitare l'effetto "non mi fido del giornalista", "questa è una fake news": secondo lei è una strada percorribile anche da noi?
Palmer ha risposto dicendo che più che sulle procedure interne alle redazioni, cosa su cui lei non si sente di dare indicazioni, per migliorare il rapporto tra giornalismo e fruitori delle notizie, è meglio iniziare a chiedersi che impatto abbia una notizia sul pubblico di riferimento, sulla comunità di utenti e lettrici/lettori in cui viene diffusa.
E’ una risposta dirompente nel senso che rompe molti schemi di produzione delle notizie e soprattutto tocca un nervo scoperto: da che mondo è mondo al giornalismo importa dello scoop, del far uscire le notizie, di non prendere quello che in gergo definiamo “buco”, senza preoccuparsi delle conseguenze della pubblicazione.
La ricerca di Palmer invece grida a tutti che se non iniziamo a considerare anche l’impatto emotivo, sociale e politico del modo in cui diffondiamo una notizia, degli errori connessi alla pubblicazione di una notizia non vera o mal verificata, rischiamo molto.
Al panel torinese sedeva anche Il vicedirettore della Stampa, Marco Zatterin.
Alla stessa domanda ha risposto dicendo che un sistema simile al fact-checking esiste già nel momento in cui chi propone la notizia deve farla passare al vaglio o valutazione della redazione prima ancora di iniziare a lavorarla (quella del caporedattore ad esempio).
Zatterin, insomma, dice che il sistema di pre-valutazione è già una forma di verifica sufficiente.
Eppure, la valutazione da parte dei colleghi, nelle redazioni italiane, é una prassi che da sola non puó garantire una informazione equilibrata, perché é estremamente soggettiva e, con le risorse a disposizione oggi nei giornali, molto limitata o a rischio “unidirezionalità” (leggete ad esempio cosa sta succedendo all’interno dell’emittente americana NPR).
Abbiamo una miriade di Carte deontologiche da applicare per garantire un po’ più di oggettività nel trattamento delle notizie e dei loro protagonisti (la Carta di Treviso per il trattamento delle notizie che riguardano i minori, ad esempio).
In più occasioni poi - l’attacco alle Torri Gemelle tra tutti - i giornalisti italiani si sono spaccati sull’opportunità di pubblicare o meno video o immagini violente, in ragione di quei limiti di verità, pertinenza e continenza - sviluppati nelle aule di tribunale - che il diritto di cronaca deve sempre rispettare e che sono già forme di valutazione dell’impatto che la notizia avrebbe sui lettori.
Insomma, la cassetta degli attrezzi per limitare gli errori e non rendere le notizie armi anziché strumenti di comprensione della realtà ce l’avremmo anche. Ma la usiamo a casaccio, a volte sì, a volte no.
Il tutto è sempre rimandato solo al buon senso e alla professionalità e buona volontà dei giornalisti.
Se bastassero, non avremmo bisogno delle ricerche di Palmer e colleghi.
Una pre-valutazione è sicuramente parte del metodo giornalistico, ma non è più sufficiente poiché é un processo autoregolato, al contrario del fact-checking inteso come metodo che prevede una verifica sistematica di dichiarazioni, dati, fatti, ecc… affidato a figure - non fonti - con competenze anche diverse da chi scrive o porta la notizia (data journalist, consulente legale, esperta/o di diversità e inclusione, ecc…).
Anche se non mette al riparo da errori e non é certamente una chiave risolutiva, il processo di fact-checking costringe le redazioni a lavorare diversamente, riorganizzandondosi.
Mette al centro le storie, i fatti, il taglio e trasforma l’elaborazione della notizia da attività che il giornalista svolge in solitaria o con un confronto limitato, ad attività corale.
In altre parole: il fact-checking costringe ad applicare con più rigore il metodo giornalistico.
Non é detto costringa invece a rallentare i tempi di pubblicazione (anche se lo slow journalism è strettamente connesso al fact-checking).
Qualcuno dice, giustamente che fare tutto questo costa, sia in termini economici sia in termini di tempo/velocità.
Ma cosa dovrebbe essere il giornalismo se non un fact-checking costante offerto al pubblico per proteggere il suo interesse a essere correttamente informato?
Palmer poi ci dà un ingrediente in più, prezioso ma molto scomodo: dice che in questo processo di valutazione, non importa se preliminare o posticipato, dobbiamo iniziare a introdurre la simulazione sistematica dell’impatto che la notizia potrà avere sul pubblico.
Creerà confusione? Polarizzerà se presentata con questo taglio e questo titolo? Chi la leggerà capirà qualcosa di più? Questo fatto é davvero rilevante per l’interesse pubblico o é solo infotainment?
Ora, una notizia importante va data subito. Ma é il modo in cui viene diffusa che cambia la percezione da parte degli utenti.
Quello che non va più offerto al pubblico, suggeriscono i risultati della ricerca, é la quantità di informazione fine a se stessa.
Sono i fattoidi e le manipolazioni per rientrare in un filone narrativo (“offre contratto a tempo indeterminato ma non trova personale”).
Sono i copia e incolla asettici di comunicati stampa whatsapp dei politici di turno, i rumors, i titoli disumanizzati, i finti virgolettati, gli allarmismi.
Tutti contenuti che con un doppio o triplo controllo forse non supererebbero nemmeno la fase di proposta iniziale.
Ai lettori importa meno della rapidità di pubblicazione di una notizia e molto di più della sua contestualizzazione e verifica.
Il ghosting o news avoidance, non é la causa della perdita di attenzione verso i giornali, ma la conseguenza di un cattivo uso del metodo giornalistico. Nulla di nuovo, insomma.
Tool
Visto che parliamo di fact-checking vi lascio questa mini-guida pubblicata di recente dal Global Investigative Journalism Network proprio sulle fasi di applicazione del fact-checking > https://gijn.org/resource/guide-to-fact-checking-investigative-stories/
Come ignorare poi il più noto The Verification Handbook ?
Qui vi metto anche il numero di FUTURA, la testata del Master in Giornalismo di Torino, con il resoconto sull'intervento di Ruth Palmer dello scorso 19 marzo > https://issuu.com/futuranews/docs/pdf_27032024
Per questa volta abbiamo finito. Io vi ricordo che qui e qui trovate i primi due numeri dello speciale dedicato allo studio della censura dal 1848 al 1948 sia in italiano sia in inglese!
Invece, se volete delle dritte su come sfruttare al meglio il digitale per copertura delle notizie elettorali (anche perché l’8 e il 9 giugno sono alle porte) qui potete recuperare Consigli per una copertura elettorale senza stress.