Lezioni di censura n.1 | Il veleno e l’antidoto
Regno di Sardegna, 1848: la gente si è rotta della monarchia. Per placare gli animi, Re Carlo Alberto apre al regime costituzionale ma userà la censura per mantenere il potere
(Re Carlo Alberto che si fa una birra immaginaria e legge il quotidiano a Torino, ovviamente immagine che non esiste ma generata da Ai di Canva)
Here you have the English version
“[…] … di tutti gli ostacoli da superare, la stampa era quello che meritava maggior attenzione a causa della sua evidente tendenza a spingere al cambiamento e ad alimentare il disordine”.
Torino, 26 marzo 1848. Re Carlo Alberto di Savoia ha appena promulgato la prima legge speciale sulla stampa (pochi giorni prima, il 4 marzo, ha dato ok allo Statuto Albertino, cioè la nonna della nostra Costituzione).
Ma quella sulla stampa è la prima legge speciale sfornata per inaugurare la nuova forma di governo. Passata da monarchia e basta, a monarchia costituzionale del Regno di Sardegna.
L’editto sembra innocuo, ma non è così: stabilisce limiti precisi alla libertà di espressione e manifestazione del pensiero. E il punto è proprio questo: perché un re, con tutti i grattacapi che deve avere in quel momento, pensa a regolare la stampa, i libri, i giornali?
Voi siete qui
Siamo in pieno Risorgimento, i “popoli” premono da anni per abbandonare le monarchie assolute che tutto decidono, spartendo terre, privilegi e ricchezze solo tra famiglie nobili e reali e affamando la fasce più deboli e sottomesse.
E’ però anche il periodo figlio della rivoluzione francese, dell’illuminismo, e della prima rivoluzione industriale, quel momento di spinta incredibile all’autonomia di pensiero e all’innovazione delle arti e dei mestieri che ha fatto emergere una classe sociale fino a quel momento confusa nella massa: la borghesia.
Quindi nel 1848, la gente - in particolare proprio la borghesia - si è rotta le scatole e chiede di avere più voce e più rappresentatività: per farlo vuole passare da una monarchia assoluta a una monarchia costituzionale in cui i rappresentanti del popolo possano avere un pezzetto di potete legislativo (magari anche esecutivo) grazie alla creazione di un Parlamento. Per carità, sempre con un re a cui lasciare certamente un qualche tipo di ruolo, ma mandando in soffitta l’accentramento dei poteri in una sola persona.
Per i reali, nella penisola come nel resto d’Europa, è un disastro: concedere più libertà, riconoscere diritti, cedere alla gestione assoluta del potere significa ammettere che non servono più a granché. Che la loro epoca e i loro regni e ricchezze sono finiti.
Su cosa però possono avere ancora l’ultima parola? Anzi, cos’è che possono controllare sperando magari che un giorno, passata questa ventata di futuro e questi colpi di testa dei sudditi, tutto torni come prima? Bè, si: proprio lei, la censura.
Il veleno e l’antidoto
L’editto di Carlo quindi è molto più di un semplice atto di ordinaria amministrazione. E’ uno strumento a due facce, da un lato il veleno (la repressione), dall’altro l’antidoto (la libertà) e il modo in cui potrà essere usato farà la differenza tra una società soggiogata e una democratica in cui la circolazione delle idee sia libera da controlli troppo invadenti.
E’ anche una miniera di informazioni su come funzionava la censura ieri e come funziona oggi.
La breve ma intensa gestazione di questo editto o legge speciale (come dimostrano i lavori preparatori1), ci dice che la libertà di stampa non è una libertà qualsiasi. Il dibattito sul riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero compare infatti in modo costante, con carattere quasi ossessivo, nelle discussioni del governo. Molto più di altre questioni all’ordine del giorno dei lavori preparatori per l’adozione della monarchia costituzionale nei primi mesi del ’48.
Piccoli spiragli di libertà
A Roma Pio IX e a Firenze Leopoldo II avevano già introdotto norme meno severe in materia di censura preventiva sulla stampa aprendo un periodo di slancio per la libertà di pensiero. Eh sì, ai tempi un testo doveva essere “vidimato” prima della pubblicazione (non importa fosse un pamphlet, un libro, una gazzetta) con un processo molto articolato e castrante che vedremo nella seconda Lezione.
In questo contesto, lo Stato sabaudo rappresentava un esempio perfetto di lenta e silenziosa destrutturazione della monarchia assoluta, con un sovrano deciso a scongiurare quanto più possibile un sistema di governo parlamentare e libertà troppo “libere”, ma conscio del rischio che avrebbe corso la Corona se avesse continuato a ignorare questa richiesta di rinnovamento della società civile.
All’autunno del 1847 infatti risalgono una serie di importanti provvedimenti in casa Savoia, comprendenti, tra l’altro, l’allentamento dei criteri di censura sulla stampa, l’introduzione del principio di rappresentatività nei comuni e l’uniformazione delle strutture amministrative della Sardegna al resto del Regno2. Si tratta però di riforme isolate, che non fanno parte di un disegno costituzionale organico.
Carlo è fermo nel suo intento: evitare, cioè, di modificare la forma di governo attraverso un’apertura troppo esplicita nei confronti delle ideologie liberali.
C’è però una congiuntura economica un po’ sfigata in quel periodo. I dazi alle importazioni sono altissimi e il prezzo del sale è aumentato in modo incontrollato. Siccome, tra le cose che la classe borghese spinge per ottenere c’è una maggior libertà economica, Carlo Alberto fa qualche concessione e apre un pochino alle politiche economiche liberiste3.
Però non basta. Verso la fine del 1847, gli sparuti blocchi di riforma concessi in alcuni dei Regni d’Italia sembrano non essere più sufficienti a contenere l’avvento del costituzionalismo.
Una testimonianza diretta della percezione che la società colta, e non, avesse di tali sprazzi di riforma ce la dà uno scrittore dell’epoca, Luigi Carlo Farini che riporta4:
“[…] questo voglio mettere in sodo, che il sentimento di indipendenza scaldava gli animi più d’ogni altro, e che male si opponevano que’ politici, i quali nel 1846 e 47 credevano che il satisfarci di riforme, lo accomodarci di codici, di strade ferrate, e diciamo pur anche di qualche civile e libero istituto, avrebbe tranquillata l’Italia per un secolo”.
Nei primi giorni del gennaio del ’48 “era più forte che mai nella penisola italiana il presentimento che qualcosa di dirompente sarebbe dovuto accadere” (questo non è Farini che lo dice ma lo studioso Ferrari Zumbini a pagina 33, vedi le note).
Iniziano a circolare notizie di reggimenti militari pronti a scendere in Italia in appoggio alle frange progressiste risorgimentali e i sovrani si vedono, così, costretti a rivalutare l’ipotesi di una riforma costituzionale. Una monarchia costituzionale, con i dovuti accorgimenti, è la sola forma di governo ritenuta possibile. Non senza il segreto convincimento che, passato il momento dei tumulti, le concessioni di diritti e libertà potranno essere abrogate e la monarchia assoluta restaurata5. Per la seconda volta6.
L’ossessione
Torino, 17 gennaio 1848. Il Re, agitato, convoca il Consiglio di Conferenza, un comitato governativo ristretto formato dai Ministri della Corona e di cui abbiamo i verbali originali. Carlo vuole subito dei provvedimenti per tamponare la crisi economica e politica del Regno. La preoccupazione che la crisi di governo diventi irrecuperabile unita alla necessità di proteggere la monarchia dalle spinte riformiste, lo ossessiona.
I membri del Consiglio valutano le ipotesi relative all’adozione di un Proclama costituzionale, cioè la promessa ufficiale di adozione di una Costituzione e quindi di una nuova forma di governo (la monarchia costituzionale).
La scena è abbastanza comica. Dalle carte emerge che il Primo Ministro (una figura che ovviamente non ricalcava quella di un capo di governo come lo abbiamo noi oggi) mette “sotto gli occhi” del Re “[…] il caso dell’indirizzo presentato a S.M. dall’avvocato Brofferio e altri tre individui che, presentandosi come rappresentanti della nazione, si sono permessi di chiedere a S.M. la creazione di un regime costituzionale”7.
L’affronto di Brofferio e dei “tre individui” è oggetto di un vivace dibattito. La concessione di un Proclama potrebbe produrre “cattiva impressione […] sullo spirito di alcuni”, specie delle frange conservatrici che appoggiano la corona sabauda, eppure questo non dovrebbe “fermare il Governo dal suo cammino”, ovvero dall’attuazione di una riforma che salvi la corona e conceda quanto richiesto dalla società civile.
Forse le parole del Primo Ministro riportate nel verbale si riferiscono proprio a questo quando dice che, pur ammettendo la possibilità di una carta costituzionale “non ci si [poteva] neanche mettere a rischio di compromettere la dignità del Trono”.
“Di conseguenza”, si legge a questo punto nel verbale, “era il caso di individuare le misure cautelative da adottare per impedire che la stampa cominciasse in tale circostanza a denigrare il Governo, cosa che potrebbe destare un incendio dalla portata imprevedibile”.
Un pericoloso ostacolo
Non è specificato se anche queste parole appartengano al Primo Ministro, ma è ciò che emerge come voce generale dal confronto fra tutti i membri del Consiglio, e cioè che l’eventuale modifica della forma di governo attraverso una costituzione “reversibile”, cioè in grado di preservare il potere della corona, non può compiersi senza un controllo capillare della stampa.
Dal tenore degli interventi delle prime sedute dell’inverno 1848, sembra quasi che i Ministri concordino nel ritenere i giornali un pericoloso ostacolo, quel genere di spina nel fianco capace di minare il piano di concessione del costituzionalismo moderato (che, lo ricordiamo, dovrà comunque permettere ai reali di riprendere pieno potere una volta placati gli animi).
Ecco perché quella seduta di governo è particolarmente concitata. Mette sullo stesso piano due decisioni politiche cruciali: l’adozione di un Proclama costituzionale e il controllo della stampa, cioè dei giornali.
Ora, il cuore - e l’innovazione - delle carte costituzionali dell’epoca non risiedeva solo nel riconoscimento di un organo politicamente rappresentativo - il Parlamento -, ma nell’affermazione di un nucleo di diritti e libertà capace di elevare lo status di sudditanza a quello di cittadinanza8.
E’ più che probabile che i Ministri di Carlo Alberto si rendessero pienamente conto che la libertà di espressione fosse uno dei temi cruciali del costituzionalismo, forse il principale. Ecco perché lo stralcio documentale del 17 gennaio segna anche l’inizio di un ulteriore e più ampio dibattito che si ripresenterà all’ordine del giorno di tutte le sessioni successive del Consiglio, ovvero la necessità di concedere e in che misura la libertà di stampa facendo in modo che questa, laddove sia riconosciuta, non comprometta il processo di transizione dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale ma soprattutto renda il processo reversibile.
Nei mesi che precedono e seguono l’adozione dello Statuto Albertino, i Ministri affrontano temi più ampi e diversi, come l’opportunità di regolare e limitare le riunioni gli assembramenti e le manifestazioni, il rapporto con la Chiesa e con il governo di Roma, il ruolo della Corona nell’esecutivo, la struttura dei poteri del nuovo Parlamento: ma tutte le questioni finiscono con il riallacciarsi alla libertà di manifestazione del pensiero e alla necessità di regolare questo fenomeno prima di qualunque altro.
All’indomani della promulgazione del Proclama, l’8 febbraio, lo stesso Carlo Alberto riterrà l’adozione di una legge sulla stampa più urgente della convocazione delle Camere appena investite del potere legislativo9.
Lo “spirito esagerato del giornalismo”
La pubblicazione di periodici e pamphlet preoccupa molto l’entourage di Carlo Alberto, convinto che questa sia una delle principali cause del vento rivoluzionario che sembra stia piegando le monarchie di mezza Europa. Durante la seduta del 7 febbraio 1848, infatti, il Maresciallo conte Sallier de la Tour, Comandante Generale della Divisione Militare di Torino, interrogato dal Re sullo stato dell’ordine pubblico del Regno di Sardegna riferirà che “con la stampa, così com’è attualmente, la Monarchia non può durare”.
Carlo Alberto tentenna, vorrebbe non dover concedere un Proclama, ma gli eventi costringono ad accelerare il processo di riforma. Il 29 gennaio Federico II di Napoli, spinto dalle aspre rivolte che stanno sconvolgendo le regioni borboniche, si è visto costretto a promettere la costituzione. E Carlo non può attendere oltre.
La seduta del Consiglio del 3 febbraio, pochi giorno dopo i fatti di Napoli, esprime tutta la preoccupazione e, in un certo senso, lo sbigottimento che attanaglia sia il Re che i suoi Ministri più moderati.
Il Ministro dell’Interno, Conte Borrelli, riferirà infatti che “le dottrine diffuse da lungo tempo sulle forme dei Governi, la tendenza generale degli spiriti e alcuni antecedenti, avevano fatto prevedere che presto o tardi si sarebbe dovuto adottare o subire un sistema differente dall’attuale. Ma si era ben lontani dal credere che tale epoca dovesse diventare così prossima”.
Il Proclama, lo abbiamo detto, altro non è che l’impegno formale del sovrano a emanare una carta costituzionale compiuta, ma deve già contenere i principi fondamentali su cui la futura monarchia costituzionale dovrà reggersi. La stesura degli articoli va avanti per giorni e ci si incaglia spesso nelle discussioni su cosa fare rispetto allo stato dell’opinione pubblica e al fenomeno degli assembramenti e delle riunioni.
Eppure, già durante la seduta del 17 gennaio “[…] esaminando l’uno dopo l’altro i motivi che potevano convincere a emanare un proclama del Re, o far temere le conseguenze e gli svantaggi che potrebbero risultarne, si è riconosciuti in generale che, di tutti gli ostacoli da superare, la stampa era quello che meritava maggior attenzione a causa della sua evidente tendenza a spingere al cambiamento e ad alimentare il disordine”.
Insomma, st’ossessione di Carlo Alberto per i giornali è insuperabile. Bisogna fare qualcosa. Torniamo quindi al 7 febbraio quando il Conte Sclopis, intervenendo dopo un dibattito sui possibili metodi per regolare e limitare il fenomeno degli assembramenti, fa notare che è degli “assembramenti ideologici” che i Ministri dovrebbero urgentemente preoccuparsi poiché contro di questi “la forza materiale non potrebbe farsi valere”.
Durante le sedute del Consiglio di conferenza vengono fatti rilevare spesso “gli eccessi, gli inconvenienti e i pericoli della stampa attuale e la necessità di mettervi prontamente rimedio”; eppure ai politici non sfugge anche il ruolo chiave giocato da questo strumento come mezzo di espressione dell’opinione pubblica e del pensiero politico.
Uno dei primi progetti di costituzione, infatti, era già stato “fortemente discusso nella cerchia dei giornalisti”10 prima di arrivare sulle scrivanie dei Ministri sabaudi (come osavano??!!) e in più sedute si proporrà di fondare una gazzetta del Regno per dar voce alla linea politica del monarca e contrastare quella delle forze risorgimentali più progressiste.
Tuttavia, gli attacchi politici al governo da parte dei giornali stanno sconfinando in abusi difficili da tollerare e capaci di far rimpiangere l’allentamento della censura concesso pochi mesi prima.
Agli inizi di gennaio del ’48 lo stesso Carlo Alberto si era dichiarato “deciso a non lasciar demolire la monarchia dallo spirito esagerato del giornalismo”.
A questo punto i verbali registrano una serie concitata di sedute in cui emerge la necessità di stilare quanto prima un Proclama costituzionale facendo in modo di riconoscere una limitata libertà di stampa.
Sufficiente a non indurre i giornali a scatenare quell’incendio che il monarca teme, ma neppure tale da sfuggire al controllo del Governo sabaudo. Per la seduta del 7 febbraio, in aggiunta ai sette Ministri che compongono il Consiglio, Carlo Alberto ha convocato altri “dieci gentiluomini”11.
La stampa sarà libera
Accogliendo le proposte ventilate già dalle prime riunioni, il Cavaliere des Ambrois richiama “l’attenzione dell’Assemblea sulla necessità di una dichiarazione concernente la stampa”.
Nel Proclama, infatti, è stato inserito un articolo appositamente dedicato, il quale stabilisce che “la stampa sarà libera, ma soggetta ad una legge repressiva” e di cui viene data lettura al Consiglio.
Secondo il verbale di seduta, le opinioni dei Ministri e dei dieci aggiunti si sarebbero divise sull’opportunità o meno di ammettere la norma, scritta in quel modo.
La riserva di legge inserita nell’articolo crea qualche dubbio. In gergo tecnico, quando c’è una riserva di legge vuol dire che un principio, in fenomeno o un diritto, anche se già riconosciuti, devono comunque essere regolati con una normativa che sarà dettagliata in un secondo momento da chi detiene il potere legislativo. Non basta dunque averlo messo per iscritto in un proclama costituzionale.
Occorre escogitare un sistema di controllo della stampa, specialmente di quella periodica a contenuto politico, efficace ma allo stesso tempo rispettoso delle libertà che il Proclama intende riconoscere, il che equivale a decidere non solo sui casi in cui la libertà di stampa è riconosciuta, ma soprattutto sui limiti che possano comprimerla.
Per il Conte Federico Sclopis la libertà di stampa è “il baluardo del Governo rappresentativo” e sottolinea che la legge repressiva dovrà essere “chiara, specifica e severa”. Ma c’è chi osserva, come il Conte di St. Marsan, che esistono anche “Governi rappresentativi che non hanno affatto libertà di stampa”, pertanto sarebbe opportuno non inserire la norma nel Proclama.
Numerosi altri membri del Consiglio si scostano dalla visione garantista che della stampa sembra avere Sclopis principalmente perché non ritengono la concessione di tale libertà “coerente con il sistema rappresentativo che si ha in vista”. Un sistema capace, specialmente nella visione dei Ministri sabaudi, di reversibilità in caso di restaurazione.
Carlo Alberto auspicherebbe, in un primo momento, un’apertura del Governo e già nella seduta del 3 febbraio aveva esposto ai Ministri “se non fosse il caso di dichiarare la stampa giuridicamente libera”, ma si rende conto che la divergenza d’opinione su un tema così delicato rischierebbe di ritardare i lavori del Proclama con conseguenze rischiose per l’ordine sociale. Quindi è deciso: la Corona manterrà la proposta di articolo così come formulata inizialmente.
Una legge sulla censura
La norma, infatti, ha il pregio di riconoscere la libertà di stampa, mentre la riserva di legge consente di rimettere sin da subito al Governo la stesura della “legge repressiva”. Perché, però, tanta urgenza nell’emanazione di questa legge?
Perché una volta che si passerà a una monarchia costituzionale vorrà dire che ci sarà un Parlamento rappresentativo, organo che avrà voce in capitolo nella regolazione dei limiti alla stampa. E invece questi limiti è ancora il Re a volerli imporre.
Dai verbali emerge l’insistenza con cui i Ministri e lo stesso Carlo Alberto cerchino quanto prima di stilare il contenuto dei limiti e le modalità di controllo cui assoggettare la stampa, quasi a voler esercitare per l’ultima volta la piena prerogativa in materia.
Potremmo anche chiederci perché il Re non abbia optato per l’inserimento di tali limiti direttamente nella carta dei principi fondamentali. Forse non c’era tempo di entrare nei dettagli. Forse menzionare in modo così stringato la libertà di stampa nel proclama avrebbe permesso di ragionare dopo, con calma, su come reprimerla per bene. Forse parlare di una libertà fondamentale compressa sin dalla sua nascita, non avrebbe dato credibilità al proclama stesso.
Il compromesso produce gli effetti sperati. Accantonato temporaneamente il problema dei limiti alla libertà di stampa, l’8 febbraio, appena un giorno dopo la discussione più lunga che il verbale del Consiglio abbia registrato, Carlo Alberto emana il Proclama costituzionale di Torino.
Si tratta solo di un primo stralcio di riforma, strutturata in quattordici principi cardine, una promessa di estensione di un più accurato progetto costituzionale che il Consiglio deve ora elaborare ma che data “il punto di non ritorno dell’avvio del Parlamentarismo in Italia”12.
Il 4 marzo 1848 è lo Statuto del Regno a vedere la luce, ma ha una particolarità. Il nuovo articolo 28 afferma, infatti, che “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”, modificando il secondo capoverso della versione originale secondo cui la stampa sarebbe stata soggetta a legge repressiva.
Nel nuovo testo esiste anche un secondo capoverso dedicato al tema della censura in materia religiosa, ma l’impianto originale sembra sia stato rispettato. Come deciso dal Consiglio, la stampa è sì libera, ma è una legge ordinaria a doverne stabilire i limiti.
Per chi non mastica il legalese, provo a schematizzare gli step:
8 febbraio 1848, Carlo Alberto dice ok al Proclama costituzionale in cui inserisce un articolo, il numero 11, per garantire che la stampa sarà libera, ma soggetta a leggi repressive.
4 marzo 1848, passiamo dalle promesse ai fatti e al proclama segue la vera e propria carta costituzionale, cioè lo Statuto Albertino che ha un articolo, il 28, in cui si dice una cosa leggermente diversa ovvero “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”
26 marzo 1848 arriva questa benedetta legge per reprimere gli abusi, una legge speciale sulla stampa (o sulla censura, dipende da come la si guardi).
La stessa legge che nel 1861 verrà estesa a tutta Italia all’indomani dell’Unità e il cui testo diverge completamente dalle Lettere Patenti albertine sulla censura e da ogni altro atto normativo sulla stampa emanato nei diversi regni italiani fino a quel momento.
La differenza più grande sta nel pieno riconoscimento della libertà di scrivere e stampare, non più sottoposto al controllo preventivo delle Commissioni di Revisione. Una vera rivoluzione che però non prevede la scomparsa della censura, anzi…
*il testo del Proclama è disponibile anche qui: http://www.dircost.unito.it/cs/docs/1848-proclama.htm
Proclama Costituzionale
BASI DELLO STATUTO FONDAMENTALE DEGLI STATI DEL RE DI SARDEGNA (1848)
CARLO ALBERTO PER LA GRAZIA DI DIO RE DI SARDEGNA, DI CIPRO E DI GERUSALEMME ECC. ECC. ECC.
I popoli che per volere della Divina Provvidenza governiamo da 17 anni con amore di Padre, hanno sempre compreso il Nostro affetto, siccome Noi cercammo di comprendere i loro bisogni; e fu sempre intendimento Nostro che il Principe e la Nazione fossero coi più stretti vincoli uniti pel bene della patria.
Di questa unione ognor più salda avemmo prove ben consolanti nei sensi, con cui i Sudditi Nostri accolsero le recenti Riforme, che il desiderio della loro felicità Ci aveva consigliate per migliorare i diversi rami di amministrazione, ed iniziarli alla discussione dei pubblici affari.
Ora poi che i tempi sono disposti a cose maggiori, ed in mezzo alle mutazioni seguite in Italia, noi dubitiamo di dar loro la prova la più solenne che per Noi si possa della fede che conserviamo nella loro devozione e nel lor senno.
Preparate nella calma si maturano nei Nostri Consigli le politiche istituzioni, che saranno il complemento delle Riforme da Noi fatte, e varranno a consolidarne il benefizio in modo consentaneo alle condizioni del paese.
Ma fin d'ora Ci è grato il dichiarare, siccome col parere dei Nostri Ministri, e dei principali Consiglieri della nostra Corona, abbiamo risoluto e determinato di addottare le seguenti basi di uno Statuto fondamentale per istabilire nei Nostri Stati un compiuto sistema di governo rappresentativo.
Art. 1. La Religione Cattolica, Apostolica, e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
2. La persona del Re è sacra e inviolabile. I suoi Ministri sono risponsabili.
3. Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato. Egli comanda tutte le forze di terra e di mare: Dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d'alleanza e di commercio: nomina a tutti gli impieghi e dà tutti gli ordini necessarii per l'esecuzione delle leggi, senza sospenderne o dispensarne l'osservanza.
4. Il Re solo sanziona le leggi, e le promulga.
5. Ogni giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome. Egli può far grazia e commutare le pene.
6. Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere.
7. La prima sarà composta da Membri nominati a vita dal Re: la seconda sarà elettiva sulla base del censo da determinarsi.
8. La proposizione delle Leggi apparterrà al Re ed a ciascuna delle Camere. Però ogni legge d'imposizione de' tributi sarà presentata prima alla Camera elettiva.
9. Il Re convoca ogni anno le due Camere: ne proroga le sessioni, e può disciogliere la elettiva: ma in questo caso ne convoca un'altra nel termine di quattro mesi.
10. Nessun tributo può essere imposto o riscosso, se non sarà consentito dalle Camere e sanzionato dal Re.
11. La stampa sarà libera, ma soggetta a leggi repressive.
12. La libertà individuale sarà guarentita.
13. I Giudici meno quelli di Mandamento saranno inamovibili dopo che avranno esercitate le loro funzioni per uno spazio di tempo da determinarsi.
14. Ci riserviamo di stabilire una milizia comunale imposta di persone che paghino un censo da fissare.
Essa verrà posta sotto gli ordini delle Autorità amministrative, e la dipendenza del Ministro dell'Interno.
Il Re potrà sospenderla o discioglierla nei luoghi dove crederà opportuno.
Lo statuto fondamentale, che d'ordine Nostro vien preparato in conformità di queste basi sarà messo in vigore in seguito all'attivazione del nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali.
Mentre così provvediamo alle più alte emergenze dell'ordine politico, non vogliamo più oltre differire di compiere un desiderio, che da lungo tempo nutriamo, con ridurre il prezzo del sale a 30 centesimi il chilogramma fin dal primo luglio prossimo venturo, a beneficio principalmente delle classi più povere, persuasi di trovare nelle più agiate quel compenso di pubblica entrata, che i bisogni dello Stato richiedono.
Protegga Iddio l'era novella che si apre pei Nostri Popoli; ed intanto ch'essi possano far uso delle maggiori libertà acquistate, di cui sono e saranno degni, aspettiamo da loro la rigorosa osservanza delle leggi vigenti, e la imperturbata quiete tanto necessaria ad ultimare l'opera dell'ordinamento interno dello Stato.
Dato in Torino, addì 8 febbraio 1848.
CARLO ALBERTO.
Si tratta degli Atti del Consiglio di Conferenza, consultabili nella versione originale in GUGLIEMO NEGRI – SILVANO SIMONE, Lo Statuto Albertino e i lavori preparatori – a cura di, Fondazione San Paolo di Torino, Roma, ed. 1992.
Si tratta, in particolare, delle Lettere Patenti del 30 ottobre 1847 sulla censura e del decreto del 27 novembre 1847 sulla riforma dei consigli comunali. Per uno studio sui provvedimenti sabaudi dell’autunno 1847 si veda FILIPPO MAZZONIS, La monarchia nella storia dell'Italia unita: problematiche ed esemplificazioni, Bulzoni editore, 1997. Secondo Ferrari Zumbini “l’adozione di tali provvedimenti suscitò, a varie riprese, ondate crescenti di entusiasmi che favorirono un ingresso trionfale del re, il 3 novembre 1847, a Genova e, un mese dopo, un ancor più trionfale ritorno a Torino. Ma la soluzione di una monarchia temperata non poteva bastare e la novella stampa spingeva per una soluzione costituzionale”, a p. 17 di ROMANO FERRARI ZUMBINI, Tra idealità e ideologia. Il Rinnovamento costituzionale del Regno di Sardegna fra la primavera del 1847 e l’inverno del 1848, Giappichelli editore, Torino, 2008.
Già nel 1834 il governo aveva ridotto la tariffa doganale sul grano e l’8 novembre dello stesso anno era stato soppresso il cosiddetto diritto di banderuola, in forza del quale era vietato ai negozianti di effettuare acquisti nei mercati prima di una certa ora. Nel 1844, poi, furono abolite anche le corporazioni artigiane. Cfr. sul punto ROMANO FERRARI ZUMBINI, a pp. 28 e ss. di op. cit. E’ bene sottolineare la differenza tra il concetto di liberismo e quello di liberalismo. Mentre il primo è una dottrina economica che teorizza il disimpegno dello stato dall'economia, il secondo è un'ideologia politica che sostiene l'esistenza di diritti fondamentali e inviolabili facenti capo all'individuo e l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (eguaglianza formale), cfr. sul punto PAOLO SOLARI-BENEDETTO CROCE-LUIGI EINAUDI, Liberismo e Liberalismo, R. RICCIARDI editore, Napoli, 1957.
da LUIGI CARLO FARINI, Lo Stato Romano, dal 1815 al 1850, III ed., Firenze, 1853, versione digitale della Harvard University Library, 2007, p.192 della versione digitale (178 ed. originale).
E’ quello che accade alle carte costituzionali emanante da Federico II nel Regno di Napoli e Leopoldo II nel Granducato di Toscana, “ben presto lasciate cadere in desuetudine o abrogate per la loro palese incompatibilità con la linea di condotta tendenzialmente assolutistica e fondamentalmente reazionaria dei governi e dei sovrani, che le avevano emanate sospinti da quell’ondata rivoluzionaria che pareva per un istante volesse travolgere l’intera Europa.” così Ghisalberti nel suo “Storia costituzionale dell’Italia 1848/1994”, Laterza editore, Roma, 2002 p. 33.
Sulla base delle decisioni prese in seno al Congresso di Vienna (autunno 1814 – estate 1815) erano già stati restaurati i confini geopolitici europei esistenti prima delle guerre napoleoniche. Diverse aree del nord d’Italia erano così ritornate sotto il controllo austriaco. Cfr. sul punto Atto finale del Congresso di Vienna, Milano, 1859, a cura di F. SANVITO, ripr. dig. Harvard University Library, 2007 (*vedi voce Bibliografia digitale a fine trattazione). Lo scenario politico italiano si presenta alquanto variegato e certamente non appiattito su un unico criterio di schieramento ideologico. Cfr. sul punto ROMANO FERRARI ZUMBINI, Tra idealità e ideologia. Il Rinnovamento costituzionale del Regno di Sardegna fra la primavera del 1847 e l’inverno del 1848, Giappichelli editore, Torino, 2008. L’A. individua “due linee in contrasto: la tendenza unitaria e quella federalista, quella moderata e quella progressista. Era connotata quest’ultima da due venature, una rivoluzionaria e una meno estremista, ma comunque favorevole ad una costituzione scritta […]”, p. 27.
Atti del Consiglio di Conferenza , seduta del 17 gennaio 1848, in NEGRI-SIMONE, op. cit., p. 179
Per uno studio degli istituti di diritto pubblico e per una analisi dei principi di tutela costituzionale vedi anche COSTANTINO MORTATI, Istituzioni di Diritto Pubblico, Editore Cedam, VII ed., Padova, 1967. Cfr. anche RACIOPPI-BRUNELLI, Commento allo Statuto del Regno, Unione Tipografica-editrice torinese, Torino, 1909, vol. II, 1.
E’ quanto emerge dal verbale delle sedute del 3 e del 7 febbraio 1848 in NEGRI-SIMONE a pp. 195 e 248 di op. cit. e suffragato anche da RACIOPPI-BRUNELLI op. cit.
Atti del Consiglio di Conferenza , seduta del 13 gennaio 1848 in NEGRI-SIMONE, op. cit., p. 173.
Così il Ferrari Zumbini, di op. cit., p. 55.
“Di quel Proclama, indipendentemente dai contenuti, rileva notare – sempre nel contesto del pacifico costituzionalismo di piazza Castello – che recava il suo numero d’ordine (per l’esattezza 669) all’interno della Raccolta degli Atti del Governo. Si collocava cioè fra il regio brevetto “col quale s.m. elegge i due Reggenti e i tre Censori provvisori ancora mancanti pel compimento del Primo Consiglio di Reggenza della Banca di Torino” (n. 668) e “il Manifesto dell’Amministrazione del Debito pubblico notificante la quota degli interessi per le partecipazioni, che saranno concedute nel corso dell’anno 1848 alle Province e Comuni sulla Cassa dei depositi” (n. 670). Quell’atto rappresentò un passaggio importante nella vita dell’ordinamento, ma, a testimonianza dell’understatement tipico di quel contesto culturale, non lo rivolle enfatizzare”, in ROMANO FERRARI ZUMBINI, di op. cit., p. 37.