Lezioni di censura n.4 | Dalla censura preventiva a quella repressiva e le lamentele dei cittadini sui giornali
Esiste una libertà senza limite? Le sanzioni per i giornalisti nell'Ottocento che ci portiamo dietro ancora oggi e il ruolo della polizia possono darci un indizio.

In questo viaggio nella storia della libertà di stampa e della sua nemesi, la censura, c’è una domanda che ricorre: esiste libertà senza limite? E questo limite è meglio sia a monte o a valle di quella libertà perché una società possa dirsi davvero democratica?
Nel 1848 lo Statuto Albertino - l’antesignano della nostra Costituzione - aveva introdotto anche nel Regno di Sardegna un nuovo sistema di censura della stampa: non più preventivo, ma repressivo. Un cambiamento importante perché la censura repressiva diventerà poi il modello dominante adottato in tutta la Penisola a partire dall’Unità d’Italia (1861… a oggi).
Allora il passaggio a questo nuovo sistema fu accolto in modo non proprio entusiasta, perché le restrizioni “a valle” erano comunque ancora molto invasive per editori, scrittori, cronisti. Eppure, adesso anche nel Regno sabaudo le idee, scritte, avrebbero potuto circolare più liberamente e senza più bisogno di quel farraginoso “imprimatur” preventivo del Collegio dei Revisori o del collegio di censura ecclesiastica che - attenzione - continuano comunque ad avere un ruolo.
Per gli scrittori piemontesi, in particolare, tutto ciò coincise con lo sviluppo di un nuovo genere giornalistico, il giornalismo politico appunto, prima di allora quasi inesistente. Perché non possiamo considerare esempi di stampa politica gli scritti sparuti pubblicati fino a quel momento, a volte con molte remore, nelle principali testate del Regno.
Se la Gazzetta Piemontese era il giornale ufficiale della Corona ciò, oltre a implicare un distacco pressoché inesistente dalla linea di potere, voleva dire far coesistere cronaca ed editoriali asettici accanto alla pubblicazione di atti di governo incommentabili (proprio nel senso che non potevano essere commentati in modo critico da chi scriveva sul giornale, era vietato).
Non è quindi un caso se nel Regno albertino, già poche settimane dopo l’entrata in vigore dell’editto sulla stampa del 30 ottobre 1847 (cioè la legge che allentava la morsa della censura e sarebbe stata la base della successivo editto sulla stampa del 1848, quello del passaggio alla censura repressiva), vengono fondate testate come Il Risorgimento, L’Opinione, la Concordia.
Il primo, in particolare, era diretto dal Conte Cavour e da Cesare Balbo, campioni del liberalismo moderato piemontese. Dalle pagine del quotidiano, Cavour getta le basi per formare e preparare meglio l’opinione pubblica alla successiva tappa del costituzionalismo piemontese e italiano, ovvero quella che deve traghettare la società prima verso l’adozione dello Statuto Albertino e poi all’Unità del paese e che prenderà forma proprio nell’inchiostro dei fogli a stampa.
Giornali come Il Felsineo potevano, finalmente, pubblicare commenti ed editoriali apertamente contrari alla dominazione straniera nei regni italiani.
Quindi già prima del ‘48, con ancora in vigore la censura preventiva, i controlli si erano “allentati” per ragioni strategiche. Il nuovo presidente della Commissione Superiore di Revisione - l’organo di censura -, Federico Sclopis, si era speso per promuovere regole di interpretazione meno ferree da far osservare ai censori.
Ad esempio, in una circolare del 27 novembre 1847, suggeriva a quest’ultimi di lasciare “una conveniente larghezza alla libertà della discussione, purché non si oltrepassino i limiti della discrezione e quelli del rispetto verso il governo”, e prescriveva loro di giustificare allo scrittore le ragioni del rifiuto di un’opera o di un articolo, in quanto giudici imparziali e neutrali, sottratti a ogni influenza esterna “che non [fosse] quella del testo della Legge che regola la materia”1.
Questa sorta di diplomazia serviva a ricucire in po’ i rapporti - molto tesi prima di allora - tra l’opinione pubblica da un lato e l’amministrazione del Regno dall’altra. Insomma, un modo per rendere più docile e favorevole al potere la società civile che, sappiamo, pretendeva più voce e spazio nella gestione della cosa pubblica. Reclamava una rappresentanza che nei regni monarchici era mal contemplata.
Un po’ di distensione, nella logica dei regnanti, avrebbe potuto calmare le istanze liberali mantenendo però una qualche forma di controllo proprio sulle idee ritenute sovversive. Eppure, grazia a questa “distensione” piano piano anche il diritto alla libera manifestazione del pensiero avrebbe preso piede.
Come nota lo storico Ferrari Zumbini, l’insieme di norme approvate nel 1847 - “non incontrò il favore dei liberali, ma si confidava in interventi migliorativi; diviene quindi interessante notare – in piena coerenza con il quadro generale di un costituzionalismo a formazione graduale – che quel testo fu integrato dalle istruzioni liberali impartite dal presidente della commissione superiore di revisione, Sclopis”2.
La reazione del potere alle “critiche al potere”
Tra queste misure c’era l’autorizzazione necessaria per poter fondare e stampare un giornale o una sezione a carattere politico di una testata. In realtà più che una libertà, l’autorizzazione era uno strumento di controllo.
Lo stesso Sclopis confidava nel meccanismo di autorizzazione per controllare in modo costante la produzione editoriale torinese e non. Credeva, cioè, che dopo un’iniziale ventata di novità e di ottimismo da parte di editori e giornalisti e dopo una prima ondata di richieste per nuovi giornali, sia il numero delle testate che la produzione in sé si sarebbe ridotta, o per lo meno assestata3.
Invece, giornali a carattere anche letterario come l’Antologia o il Messaggiere torinese assunsero da un giorno all’altro un taglio politico.
A Genova, agli inizi di dicembre, ottennero le autorizzazioni per sezioni politiche o come nuove testate, giornali come il Corriere mercantile (fondato nel 1824), il Colombo, la Lega italica e il Cittadino, tutti fortemente liberali.
Lo sviluppo quasi incontrollato di una simile produzione editoriale comportò ben presto gli stessi problemi che decenni prima avevano spinto Leone XII a riformare ilsistema di censura romano.
Difficile esaminare in modo costante l’intera frangia di opinionisti, altrettanto difficile controllare il pensiero liberale moderato quando gli stessi attori politici del momento erano direttori o collaboratori delle suddette testate.
La pubblicazione, a volte irriverente, di progetti di Costituzione e di altri commenti che inevitabilmente toccavano la vita amministrativa del regno era divenuta di colpo normale.
Tanto per citare un esempio, a marzo del 1848 c’era chi si lamentava pubblicamente del cattivo sistema di trasporto ferroviario e delle poste:
“Nel bisogno, nell’ansia che abbiamo di sapere ogni istante le notizie dei nostri fratelli che con noi si adoprano al ristauro della nostra grande e sventurata nazione, come mai non si è pensato di istituire almeno un corso quotidiano di poste [...]? Chi non sa gli effetti che può produrre una notizia ritardata di 24 ore?. [...] Questa che si combatte è guerra di nazionalità e di popoli. Questa che si propugna è causa di libertà e di nazione! E voi ci lasciate nell’isolamento, e voi non ci date i mezzi per essere istruiti una volta almeno al giorno di quello che accade in Italia e nel resto d’Europa?”
Queste esternazioni, tuttavia, non erano senza prezzo. L’atteggiamento delle Commissioni di revisione sarebbe presto cambiato anche se, per citare le parole dello storico Giovanni Ponzo, “ciò che tuttavia sembrava allora preoccupare maggiormente il governo non erano tanto i fogli che circolavano liberamente e impunemente nel paese, quanto l’assenza di un organo di informazione che esponesse il punto di vista ministeriale sui fatti del giorno”.
La Gazzetta piemontese, infatti, doveva limitarsi a riferire i fatti del giorno, senza commentarli, ma per far fronte al giornalismo liberale, e soprattutto progressista, occorreva uno strumento nuovo, diverso dall’esercizio del controllo, preventivo o repressivo che fosse.
E’ interessante - e fantastico - il questa fase il braccio di ferro tra potere costituito – la Corona –e potere costituente – il movimento liberale moderato –, tra autorità e opinione pubblica. E’ meraviglioso anche osservare il diverso approccio dei due “universi” alla stampa: mentre i liberali non ancora al potere la rendono uno strumento di propaganda e discussione, i ministri di Carlo Alberto, da minaccia all’ordine pubblico iniziano a considerarlo nella sua reale portata, ovvero strumento di contrasto politico e giuridico ai “movimenti sovversivi” e in generale a chi si oppone alla restaurazione.
In questa fase storica la libertà di stampa non è ancora una libertà fondamentale degli individui, ma è una sorta di potere amministrativo da un lato e concessione amministrativa dall’altro. La conquista della libertà di stampa come diritto - e diciamo, la conquista della libertà di espressione del pensiero come diritto fondamentale dell’individuo - avverrà gradualmente a partire dal passaggio alla censura repressiva.
La censura repressiva e le misure di contenimento dell’editto albertino sulla stampa
Ed eccoci quindi al passaggio cruciale che permette agli scritti di essere stampati senza più nessuna necessità di approvazione, ma pur sempre sottoposti a una possibile censura post-stampa.
E’ un passaggio fondamentale perché sposta l’asse della responsabilità sul contenuto che viene pubblicato, dallo “Stato” al singolo autore. Trasforma la libertà di stampa in un diritto soggettivo, e lascia la censura continuare a essere un potere, una forza, esercitabile solo dall’autorità costituita.
Come si arriva a tutto questo? Ed è meglio o peggio avere una censura repressiva? Per rispondere dobbiamo tornare alle fonti, quindi all’editto albertino sulla libertà di stampa emanato il 26 marzo 1848 (poche settimane dopo la proclamazione dello Statuto).
A consegnare il testo al Re sono il Conte Sclopis e il Conte Avet, chiamati a comporre la speciale commissione per la redazione della legge repressiva sulla stampa.
E’ una legge complessa che conta più di cinquanta disposizioni ma dentro prevede, praticamente, tutti i casi possibili e immaginabili da regolare (al tempo).
L’editto prevede una più stretta integrazione con il sistema penale allora vigente. Ricordate che nei numeri precedenti di questa newsletter avevamo accennato al fatto che la censura preventiva fosse praticamente una regolamentazione tutta amministrativa? Di come le sanzioni per le trasgressioni fossero appunto amministrative più che di natura penale?
Ecco, nel sistema repressivo invece l’asse della responsabilità si sposta molto di più in ambito penale con minaccia per la libertà personale di editori e scrittori -.
E ancora, l’editto definisce la giurisdizione in materia di reati di stampa, regolamenta la responsabilità di tutti i soggetti coinvolti nella produzione giornalistica e libraria in genere, inclusi i rapporti con il potere costituito. Insomma, l’editto del 26 marzo 1848 n° 695 divergeva profondamente dalle Lettere Patenti albertine sulla censura e da ogni altro atto normativo sulla stampa emanato nei diversi regni italiani fino a quel momento.
La differenza più grande stava proprio nel pieno riconoscimento della libertà di scrivere e stampare, non più sottoposto al controllo preventivo delle Commissioni di Revisione (rimanevano però intatti tutti i meccanismi di registrazione di una testata che dovevano comunque continuare a essere autorizzate dall’autorità).
Veniva anche eliminato l’obbligo di firma dei pezzi - perché nel sistema preventivo non potevano essere tollerati articoli anonimi - e introdotta la figura del gerente responsabile.
Sembrano innovazioni molto democratiche. Anche perché questa legge aveva subito una gestazione a cavallo tra due atti politici fondamentali dell’epoca. Il Proclama costituzionale da un lato - 8 febbraio 1848, quello adottato da re Carlo Alberto per dire ai sudditi “state buoni, vi prometto che avrete una forma di monarchia costituzionale” - e lo Statuto vero e proprio dall’altro, adottato il 4 marzo di quell’anno e che ammetteva un parlamento rappresentativo e molte altre innovazioni.
Ecco, in questi due atti, la norma che riconosceva libertà di stampa era sensibilmente mutata nel passaggio dall’uno all’altro. E questo aveva avuto effetti anche sulla legge che poi avrebbe dovuto regolare quella stessa libertà.
Se nel Proclama infatti di diceva che “la stampa sarà libera, ma soggetta a una legge repressiva”, nello Statuto l’espressione cambiava diventando: “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”.
Letta così potremmo pensare che la norma liberi del tutto la stampa. Un conto, infatti, è reprimere la libertà di stampa, un altro è reprimerne il solo abuso. Eppure dobbiamo attendere per cantare vittoria.
Il preambolo dell’editto, infatti, dopo aver riconosciuto la libertà di stampa come “necessaria guarentigia delle istituzioni d’ogni ben ordinato Governo rappresentativo”, parla di correzione “degli eccessi” della stampa. E per “correggere” gli eccessi prima bisogna capire quali fossero e poi creare un sistema formalmente garantista ma sostanzialmente legato alle strutture della censura preventiva.
Le sanzioni penali
La prima novità introdotta dalla nuova legge riguardava una correlazione più stretta tra libertà di stampa e norme del codice penale in vigore dal 1839. Il che aveva prodotto una disciplina molto più precisa e rigida di quanto non fosse prima.
Furono rimodulate infatti le sanzioni penali, pecuniarie e detentive per i reati di diffamazione e ingiuria commessi a mezzo stampa. Per la prima volta la stampa caratterizzava delle fattispecie giuridiche di reato.
Allo stesso modo i divieti esistenti anche al tempo delle Lettere Patenti del 1847, ovvero quello di provocare all’odio, di offendere sovrani o capi di stato esteri, ambasciatori, ministri e altri ufficiali o rappresentanti autorità pubbliche e religiose, rimanevano in vita con pene differenziate rispetto ai correlativi reati “puri” – diremmo anche con pene diminuite rispetto al codice penale, tanto che lo storico Lazzaro definisce le sanzioni albertine per i reati di stampa ben più miti di quelle previste per i crimini, i delitti e le contravvenzioni ordinarie4 (così la vecchia suddivisione penalistica) adesso in vigore.
Veniva, però, introdotto un capo relativo alla “provocazione pubblica a commettere reati” e che prevedeva sanzioni penali a carico di chiunque, vendendo, distribuendo, o comunque esponendo al pubblico “stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili”, avesse “provocato a commettere un crimine, un delitto od una contravvenzione”: un bacino di imputazione piuttosto ampio e destinato a interpretazioni molto larghe5.
Rimaneva invece intatto il principio dell’inviolabilità della Persona del Re, ma con una fondamentale precisazione: metterne in discussione l’autorità attraverso uno scritto – “impugnare formalmente la inviolabilità” è l’espressione utilizzata dalla legge – veniva equiparato alla violazione della “autorità costituzionale del re e delle Camere”. E’ come se cioè oggi la Costituzione prevedesse un reato di attentato o alto tradimento a mezzo stampa.
I giornali dovevano quindi stare attenti a non compromettere il costituzionalismo moderato, ora più che mai riconosciuto dall’immedesimazione della persona e della funzione del Sovrano con la funzione svolta dalle nuove istituzioni liberali, ovvero il Parlamento. Non a caso il capo V, oltreché alle offese contro i sovrani esteri, è dedicato tra l’altro alle “Offese pubbliche contro il Senato o la camera dei Deputati”.
I retaggi del sistema preventivo erano quindi evidenti.
L’articolo 20 prevedeva il carcere da un mese a un anno e una multa da cento a mille lire per chiunque avesse fatto “risalire alla Sacra Persona del Re il biasimo o la responsabilità degli atti del suo governo”. Era forse un modo per evitare qualunque dietrologia giornalistica tesa a screditare un potere già incrinato dagli eventi di quel periodo, ma comunque difficile da conciliare con il giornalismo politico.
Il divieto di pubblicazione di atti giudiziari coperti da segreto
Meritava, invece, attenzione, la disposizione dell’articolo 10. In quattro commi si introducevano il principio, ancora oggi in vigore, del divieto di pubblicare atti giudiziari coperti da segreto ma anche il diritto di pubblicare incartamenti relativi a casi pubblicamente dibattuti.
Quest’ultima disposizione riguardava tutti i casi giudiziari, eccetto quelli che avevano proprio a oggetto reati a mezzo stampa, o meglio, “vertenti o vertiti per reati di stampa”, che non avrebbero mai dovuto incontrare le pagine di un quotidiano o di un periodico anche quando fossero stati dibattuti pubblicamente tanto dai “giudici del fatto” (cioè una giuria popolare) quanto dai “giudici di diritto” (ovvero, i magistrati).
La disuguaglianza era palpabile, ma controbilanciata dall’inibizione dell’azione penale nei confronti di autori ed editori che avessero pubblicato atti parlamentari non secretati. In sintesi: non era possibile pubblicare atti giudiziari riguardanti reati di stampa, anche se pubblici, ma allo stesso tempo giornalisti ed editori che avessero pubblicato atti parlamentari pubblici - su qualunque altra questione - non potevano essere perseguiti penalmente.
Credo che questa norma potrebbe qui giustificarsi con la necessità dei deputati e dei ministri di pubblicare stralci, resoconti, interpellanze e dibattiti svolti in seno agli organi parlamentari, quindi per farsi pubblicità.
Le giurie popolari e il gerente responsabile “complice dei delitti”
A questo punto possiamo introdurre le altre due vere innovazioni dell’impianto albertino: le giurie popolari e la figura del gerente responsabile.
Anzitutto, competente a giudicare i reati di stampa era “esclusivamente il Magistrato d’Appello, coll’aggiunta dei giudici del fatto”, ossia con l’intervento di una giuria popolare. Facevano eccezione - ed erano demandati ai Tribunali ordinari - l’istigazione a commettere reati, le offese contro le religioni, le diffamazioni e ingiurie contro privati e rappresentanti diplomatici di paesi stranieri”.
Le giurie popolari erano formate in questo modo: dodici persone nominate dalla Camera dei Deputati tra l’elenco degli elettori – solo tra uomini maggiorenni e con cittadinanza, data la mancanza del suffragio universale – avrebbero formato un giurì in seno a ciascuna Corte d’Appello e giudicato dei reati menzionati nell’editto del 26 marzo.
Per quanto l’istituzione fosse liberale, non sarebbe mai entrata in funzione e nel 1852 una modifica normativa avrebbe restituito alla magistratura ordinaria le compentenze del giurì. Eppure, proprio il giurì introdotto grazie all’editto del 26 marzo, sarebbe stato assorbito pienamente nella processualistica italiana a partire dal 1859, anno dell’estensione della competenza dell’organo anche ad altri reati. In un certo senso possiamo dire che la giuria popolare nei processi è nata a causa del giornalismo.
Fra le informazioni necessarie alla registrazione di un giornale presso il Ministero dell’Interno, adesso figuravano anche “il nome e la dimora” del gerente responsabile, ovvero di colui che materialmente avrebbe diretto il giornale. Si distingueva giuridicamente dal tipografo, dall’autore degli articoli e dall’editore, anche se avrebbe potuto confondersi almeno con gli ultimi due.
L’intero capo VIII dell’editto, dunque, era dedicato alla disciplina di quest’organo, studiato esclusivamente per la stampa periodica e indicante, d’ora in poi, “qualunque suddito del Re il quale sia maggiore d’età e goda del libero esercizio dei diritti civili, qualunque società anonima o in commandita, qualunque corpo morale legalmente costituito nei Regii Stati” che avesse pubblicato un giornale o scritto periodico, alle condizioni dell’editto.
L’individuazione di un gerente responsabile era condizione necessaria per ottenere il permesso di pubblicazione, tanto che in caso di incapacità o irreperibilità, la responsabilità giuridica veniva trasferita ai suoi eredi o successori.
Perché prevedere un simile meccanismo? La risposta è in quel sistema di responsabilità civile e penale che alcuni studiosi hanno definito “a cascata”6 e che avrebbe ora risolto il problema dell’anonimato e dell’irreperibilità del soggetto imputabile di violazioni di norme attraverso “l’abuso del giornalismo”.
Infine, la legge Albertina, rispondendo a uno schema ormai ben conosciuto, divideva la stampa e l’editoria dal giornalismo politico, riconoscendo in entrambi i casi il diritto a non sottoscrivere o firmare l’opera o l’articolo – previsione marcatamente liberale se si pensa che l’obbligo di firma costituiva uno dei perni del sistema di censura preventiva - ma tenendo presente il diverso scenario garantista che l’anonimato poteva conferire nell’uno e nell’altro caso7.
Un libro o una pubblicazione editoriale non giornalistica, per quanto anonimi, potevano comunque lasciare tracce utili per rintracciarne autore ed ’editore (es. analizzando bene lo stile e il tono della scrittura, oppure il tipo di carattere tipografico usato e la rilegatura che ogni tipografia amava personalizzare ecc…).
Quindi, in caso di trasgressione, siccome era comunque più facile risalire alla mano che lo aveva scritto, la responsabilità non sarebbe stata fatta cadere indiscriminatamente su uno qualsiasi dei collaboratori o editori coinvolti nella pubblicazione, ma prima sull’autore stesso – nel caso fosse possibile identificarlo – e solo in caso di impossibilità nel rintracciarlo sull’editore, e quand’anche questo fosse irrintracciabile o sconosciuto, sullo stampatore.
Nel campo del giornalismo, invece, la rintracciabilità dell’autore anonimo era più difficile. Per utilizzare le parole dello storico Racioppi, un articolo anonimo poteva godere del più generale favoritismo che solo un giornale poteva conferire e che si sostanziava nella concisione spaziale dello scritto – ad esempio era difficile rintracciare un’’autore dallo stile scarno o breve – e nella continuità temporale della pubblicazione (quindi nella potenziale reiterazione del reato contando sull’impunità).
Nell’idea dei legislatori di allora, la costanza con cui un’opinione, un’idea, vengono propinate al pubblico possono avere effetti più incisivi rispetto a un manoscritto isolato. Il che si spiega anche con la difficoltà di raggiungere un vasto pubblico con quest’ultimo che non con pochi fogli facilmente stampabili.
Pertanto, nell’evidente impossibilità di rintracciare l’autore anonimo di un articolo, il gerente avrebbe risposto sempre, a titolo di responsabilità organica, per qualunque atto illecito commesso attraverso il proprio giornale, salvo prova contraria. E infatti l’art. 47 disponeva: “Tutte le disposizioni penali portate da questo capo sono applicabili ai gerenti dei giornali, e agli autori che avranno sottoscritti gli articoli in essi giornali inseriti. La condanna pronunciata contro l’autore sarà pure estesa al gerente, che verrà sempre considerato come complice dei delitti e contravvenzioni commesse con pubblicazioni fatte nel suo giornale”.
Il sequestro preventivo
Che il sequestro del materiale giornalistico fosse un mezzo di censura repressiva non è proprio pacifico. In base all’art. 52 il procuratore generale, il procuratore del re o il pretore avrebbero potuto far sequestrare dalla polizia tutti gli esemplari tipografici di stampati, litografie o simili “che si riconoscessero contrari alle disposizioni […]”, nell’intervallo di ventiquattrore tra la stampa e la distribuzione al pubblico.
Una volta pubblicato il giornale, era infatti obbligatoria la consegna di una copia di qualunque stampato da parte del gerente responsabile – per i periodici – e dall’autore – per i libri e gli altri prodotti non giornalistici – presso l’ufficio giudiziario locale o la divisione di polizia distrettuale.
Entro le successive ventiquattro ore dal sequestro il relativo procedimento giudiziario avrebbe dovuto essere promosso d’ufficio dagli stessi mandanti della misura cautelare, ma, secondo le cronache dell’epoca e gli atti parlamentari successivi al 1870, l’instaurazione del giudizio veniva sistematicamente elusa con grave danno per le società tipografiche e per gli editori.
L’articolo 53, infatti, prevedeva anche la distruzione del materiale ritenuto dalla polizia contrario alla normativa, senza che il sequestro - e quindi il potenziale accertamento giudiziario – fosse necessario. L’instaurazione del processo era garanzia essenziale affinché il sequestro non si tramutasse “in una pena arbitraria e in una confisca illegale dell’altrui proprietà”.
La costante violazione del precetto avrebbe portato i guardasigilli dei successivi governi a denunciare apertamente questa pratica dal momento che con i sequestri “si veniva a recare un gravissimo danno e ad infliggere una pena a colui che si presumeva colpevole di un reato prima ancora che l’autorità competente si fosse pronunciata”8.
Attenzione alle misure di polizia
Da ciò può desumersi che il sequestro preventivo fosse divenuto ben presto una misura amministrativa di polizia, assimilabile alla censura preventiva ma per certi aspetti ben peggiore se si considera l’esercizio della forza materiale, piuttosto che ideologica, propria del sistema repressivo.
Questo è molto importante da capire: non è tanto la censura repressiva in sé a dirci se un sistema è dittatoriale o democratico, ma a quali apparati un governo decide di lasciare l’esercizio della censura.
Lo vedremo quando parleremo delle misura di censura in altri paesi europei dell’epoca: quando la libertà di manifestazione del pensiero viene repressa dalla polizia, abbiamo una spia molto solida del fatto che una società non sia più tanto democratica.
Torniamo quindi a noi. Alla circolare con cui il ministro della giustizia Mancini, il 16 maggio 1876, richiamava l’attenzione dei procuratori generali presso le Corti d’Appello “sull’abuso invalso di ordinare i sequestri dei giornali senza poi procedere” sarebbe seguita quella dell’on. Zanardelli del 14 gennaio 1889, e così via in una sequela di richiami e lamentele da parte dei giornalisti e dell’opinione pubblica contro un utilizzo improprio del sequestro.
Si dovrà attendere il 1906 per la sua completa abolizione, ma è curioso come la prassi amministrativo-giudiziaria del tempo, eludendo un chiaro dettato normativo, abbia di fatto surclassato le disposizione del legislatore costituente marcando il sistema repressivo di quelle stesse sfumature che avevano caratterizzato la censura preventiva.
E’ un aspetto, quello della commistione delle misure di polizia con l’esercizio della censura, che merita una analisi a parte e un confronto serrato con quanto accadeva in altre realtà europee, come quella bavarese, strette nel giogo di un controllo di cui difficilmente potevano distinguersi contorni preventivi e contorni repressivi. In Italia la misura di polizia potrebbe essere stata il retaggio di quel conservatorismo che i Ministri di Carlo Alberto non avrebbero mai rinunciato a imporre, anche all’interno del nuovo assetto costituzionale.
C’è anche un altro elemento importante da considerare: alla fine del 1849 una seconda ondata restauratrice avrebbe temporaneamente e malamente ricompresso alcune delle libertà fondamentali riconosciute nei vari Regni italiani e questo avrebbe avuto consequenze anche sulla libertà di stampa.
Il sequestro preventivo privato della connotazione processuale sarebbe sopravvissuto da allora sino ai primi del Novecento come espressione di un ancoraggio al regime di controllo assolutista sempre pronto a riemergere.
Ecco perché una prima spia, una prima correlazione tra censura e dittatura possiamo rintracciarla ogni qual volta un governo usi o tenti di usare misure amministrative di polizia per il controllo della stampa. Senza rispettare i diritti e le disposizioni che tutelano, invece, la libertò di stampa stessa.
L’editto del 26 marzo, quindi, può certamente considerarsi una riforma liberale, anche se non nell’accezione più rappresentativa del termine. La repressione, a differenza del controllo e dell’ingerenza del potere nel modello preventivo, era sicuramente più dura, ma il motivo è semplice: dal punto di vista di chi esercitava il potere, un contesto culturale abituato da secoli a strutture monarchiche, a subire il potere e a non esserne compartecipe, non è detto fosse pronto a ricevere anche quel poco di libertà in più che ora gli si offriva.
Soprattutto, le stesse strutture monarchiche, spaventatissime da questa poca libertà in più concessa, avevano strutturato la legge in modo tale che ci fossero più limiti che concessioni. Questo implicava anche maggiori responsabilità e pene più severe per gli autori e direttori delle testate.
E forse è proprio nella nuova distribuzione dei carichi di legittimità e di responsabilità che sta il collegamento tra sistema repressivo e governo liberal moderato. Fino ad un anno prima la stessa responsabilità era riassunta nelle mani del potere centrale, rappresentato dai censori e in un certo senso lo “Stato” si era fatto carico del peso e delle preoccupazioni che la circolazione delle idee comportava.
Anche se in modo non eclatante, ora l’onere della libertà di stampa veniva gradualmente rimesso ai suoi legittimi detentori, non senza rigide precauzioni osservate anche da altri ordinamenti europei: e questo disfarsi, anche solo formale, del potere e della responsabilità connesse alla libera opinione rispondeva di certo a un nuovo sistema moderatamente liberale e relativamente più rappresentativo.
E nel resto dell’Europa cosa accadeva? Lo vedremo del prossimo numero
Cfr. GIOVANNI PONZO, op. cit, pp. 198-199 “Le origini della libertà di stampa in Italia, 1846 – 1983”, Milano, 1980
In ROMANO FERRARI ZUMBINI, Tra idealità e ideologia. Il Rinnovamento costituzionale del Regno di Sardegna fra la primavera del 1847 e l’inverno del 1848, Giappichelli editore, Torino, 2008, p. 470.
Queste le impressioni che il Conte lasciò per iscritto in alcune missive destinate all’amico Pieri. Cfr. PONZO, op. cit., p. 202.
Cfr. GIORGIO LAZZARO, La libertà di stampa in Italia dall’Editto albertino alle norme vigenti,Milano, 1969, pp. 15 e ss.
“Nel 1858, a seguito dell’attentato il 14 gennaio alla vita di Napoleone III da parte di Felice Orsini, viene introdotta una nuova figura di reato, l’apologia dell’assassinio politico a mezzo stampa. La riforma tocca anche la composizione delle giurie popolari i cui componenti non saranno più scelti in base a estrazione dagli elenchi elettorali, ma direttamente dal sindaco della Corte d’Appello e da due consiglieri comunali (di cui uno designato dall’intendente della Provincia, una specie di prefetto). Essendo il sindaco una propagazione dell’autorità amministrativa, rimettere la scelta a tale apparato potrebbe essere considerata come una misura di polizia. Lazzaro scrive “E in quanto alle proposte di modifica nel sistema di formazione delle liste dei giurati si obiettava che, in tal modo, era come affidare il giudizio sui reati della stampa, ad una sorta di commissione governativa”. GIORGIO LAZZARO, op. cit., , p. 37.
L’espressione è attribuita a De Brouchére, 1831. Cfr. sul punto RACIOPPI-BRUNELLI, Commento allo Statuto del Regno, Unione Tipografica-editrice torinese, Torino, 1909, vol. II, 1, p. 142.
Sul punto cfr. RACIOPPI-BRUNELLI, Commento allo Statuto del Regno, Unione Tipografica-editrice torinese, Torino, 1909, vol. II, 1, pp. 141 e ss.
In Racioppi-Brunelli, op. cit., p. 151.